Immigrazione e identità

di Giancarlo Pillitu

Il tema dell’immigrazione è indissociabile dalla questione dell’identità. E dai problemi che minacciano l’identità. Primo fra tutti la precarietà che deriva dalla globalizzazione. Le politiche economiche seguite dall’Unione europea, e quindi anche dall’Italia, accentuano il senso di precarietà, mascherandolo col nome subdolo di flessibilità. Flessibilità, austerità, competitività. Questi imperativi categorici minacciano ciò che i singoli individui costruiscono giorno per giorno per potersi riconoscere, per poter acquisire un’identità. Si abbattono come uno tsunami sui nostri capisaldi, sui paradigmi esistenziali (e anche professionali) che faticosamente ciascuno di noi cerca di costruire mediante un lavoro quotidiano. Sono imperativi che aggrediscono la nostra soggettività, già naturalmente precaria, transeunte, perché frutto sempre nuovo di un processo che si alimenta della relazione. Precipitiamo così in fasulli dilemmi etici, riconducibili all’opposizione identità vs diversità. Falsa opposizione, perché in realtà si tratta di una separazione. Una separazione che costituisce il presupposto per la relazione. In primo luogo per la relazione io-altro.

L’arrivo dell’altro da noi, l’arrivo degli altri “da fuori”, si inscrive pertanto in tale contesto di crisi. Crisi che non ci consente di avere la serenità e la disponibilità (nel senso che non disponiamo di noi) per attivare e sviluppare processi relazionali con gli altri e con il nuovo che essi portano con sé. E’ un problema politico, o meglio bio-politico (relativo al progressivo e sempre più diretto governo totale dei nostri corpi, acuito da fenomeni come i flussi migratori e gli attacchi terroristici del fondamentalismo islamico), se inquadrato dal punto di vista di chi ci governa. E’ un problema etico, esistenziale, ma anche estetico, se percepito secondo l’ottica della società civile, ovvero di chi sta dentro il divenire dell’identità e della relazione.

René Magritte, Decalcomania, 1966
                              René Magritte, Decalcomania, 1966

Il fondamentalismo, da qualunque parte provenga (compresa la nostra parte, quella dell’Europa, della Francia dell’Illuminismo, per esempio, che arriva a proibire l’uso del burkini), è indice della crisi dell’identità. Crisi dell’identità significa che non siamo più in grado di conoscere o riconoscere e di interpretare ed elaborare creativamente la nostra tradizione culturale. Ogni vera soggettività implica infatti un’ermeneutica. Qualunque cosa facciamo, essa non è altro che elaborazione della nostra identità. Lo spiega bene Hegel nella Fenomenologia dello spirito (1807), quando, come terza fase della dialettica signoria-servitù, si sofferma sulla sotto-figura del lavoro, inteso come un dar forma alla materia e contemporaneamente al nostro spirito, oggettivando così la nostra interiorità nelle cose che produciamo. Un processo del quale occorrerebbe divenire consapevoli, perché possa sfociare nell’autocoscienza. Ci dovremmo educare ad una politica del sé, della consapevolezza di sé, secondo la direzione magistralmente tracciata da Socrate, che ha perseguito per tutta la vita il precetto delfico del “conosci te stesso”. Temiamo gli altri, perché ignoriamo noi stessi, non sappiamo esattamente che cosa siamo in grado di fare, e pertanto non abbiamo fiducia in noi stessi. Ci arrocchiamo sulla strenua difesa del poco che possediamo, pretendiamo di ottenere dei piccoli privilegi, piuttosto che il rispetto dei diritti fondamentali, abbiamo una visione frammentaria di noi stessi e del contesto in cui viviamo, priva del senso della continuità temporale. Ci manca una memoria storica sufficientemente salda.

L’educazione all’elaborazione di una consapevole identità individuale e collettiva dovrebbe essere il fine principale della scuola, sebbene il principio del già menzionato “conosci te stesso”, nella scuola come nella società, sia afflitto da un processo di evaporazione e la scuola stessa stia vivendo una seria crisi di identità, avendo progressivamente smarrito tale vocazione formativa.

Ma quali modelli di elaborazione dell’identità si presentano alla nostra riflessione? Proviamo ad analizzarne rapidamente alcuni che siano traducibili in percorsi formativi.

Il primo modello, tradizionale ma sempre attuale e particolarmente praticabile in una dimensione scolastica, si incentra sulla scrittura, intesa come ricerca lessicale e sintattica finalizzata ad una rappresentazione della realtà che partendo dalla sensibilità del soggetto arrivi alla costruzione di concetti e alla delineazione di un pensiero orientato verso l’autocoscienza.

Il secondo modello è molto attuale ed è rappresentato dall’attività del videomaker, la cui soggettività relazionale si realizza nella creazione di prodotti virtuali. Il suo punto di forza è dato dalla capacità di suscitare un forte seguito, misurato in numero di visualizzazioni. Il suo punto di debolezza invece risiede nel rischio di restare prigionieri dell’immagine che si produce, e conseguentemente di allontanarsi sempre più da quel grado di realtà che è condiviso anche dai nostri corpi. Un’attività che può essere intesa come l’evoluzione multimediale della scrittura, promossa da una libertà quasi di tipo umanistico-rinascimentale.

Il terzo modello, complementare ai primi due, è quello che valorizza anche la nostra vita biologica, il nostro corpo, il suo chimismo, ovvero il metabolismo, la fisiologia, l’alimentazione, imprescindibili, perché da tali processi dipendono anche le nostre facoltà emozionali ed intellettuali, come insegna il Feuerbach de “L’uomo è ciò che mangia” (1862).

Riflettere su tali possibili percorsi può aiutare alla crescita della consapevolezza di chi siamo e del rapporto che possiamo intrattenere con gli altri, sentendoci attori della giustizia sociale.

Vulcano n° 89

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