Le identità sbiadite del mondo globale

L’identità sembra essere la prima, ma non l’unica, vittima della globalizzazione. È possibile vivere in un mondo sempre più interconnesso, omogeneizzato ed omologante, senza rinunciare alla nostra identità o impedendo che sbiadisca?

 

Per globalizzazione intendiamo il processo di continua e sempre più diffusa integrazione e interdipendenza nella vita dei diversi popoli. Il significato del termine è soprattutto, o almeno originariamente, economico e sta ad indicare la progressiva integrazione dei mercati economico-finanziari. Si tratta di un processo complesso e in rapida evoluzione che ha coinvolto, inevitabilmente, altre dimensioni della vita umana, manifestandosi anche a livello culturale. Uno dei problemi (o delle sfide, se vogliamo) fondamentali della globalizzazione è riuscire a conciliare una società in cui tutti gli individui godano di pari diritti, rispetto e dignità, tenuto conto delle innumerevoli differenze culturali.

Ad oggi il modello dominante in questo senso, è quello occidentale, incentrato sul liberismo economico. Il difetto del liberalismo politico è proprio questo, l’essere accompagnato da quello economico, con le sue sfumature degenerate che portano alla mercificazione della cultura e ad una logica di omogeneizzazione culturale in chiave consumistica. Il rischio è che, nel perseguire il “bene collettivo”, oltre ad una parte di libertà individuale, rinunciamo anche ad un parte della nostra identità culturale.

La globalizzazione, purtroppo, è un terreno molto fertile per un fenomeno di questo tipo perché, per entrare in contatto con il resto del mondo, pensiamo di dover rinunciare alla nostre realtà di dimensione locale. La cultura diventa sempre più globale, grazie all’influsso dei mezzi di comunicazione e delle tecnologie informatiche che consentono la comunicazione rapida di una grande quantità di informazioni spesso di scarsissima qualità e attendibilità. Questa cultura globale (che possiamo chiamare anche mondiale) non solo si diffonde rapidamente ma diventa addirittura dominante perché, ricordiamocelo, la tecnologia non è mai neutra. Non solo. Spesso veicola una dis-informazione che promuove un pensiero unico, acritico e, per l’appunto, disinformato. Ha inoltre provocato la perdita dei valori locali in favore di una quasi totale omogeneizzazione delle società, degli stili di vita, dei comportamenti e anche dei valori di riferimento. Il risultato è un generale impoverimento culturale che si accompagna ad un appiattimento identitario, alla perdita di quelle comunanze di radici che forniscono ad ogni essere umano la propria base aggregante o, come ho già avuto modo di dire, il proprio ancoraggio identitario.

Se la cultura diventa sempre più globale, in che termini oggi si può parlare di identità culturali e quali spazi rimangono per la loro espressione e conservazione? Dobbiamo inoltre chiederci quali siano gli elementi utili a preservare la nostra identità culturale, il che equivale a domandarci cosa definisce la nostra identità. Elementi identitari sono indubbiamente la lingua, la religione, la tradizione, la storia. Quanto agli spazi di espressione e preservazione della nostra identità, questi sono anzitutto la famiglia e la scuola, ossia le due istituzioni fondamentali sulle quali si regge (o dovrebbe reggersi) la nostra società, che dovrebbero operare sinergicamente e farsi portatrici di identità, cultura e valori ma che invece dialogano sempre più faticosamente, attribuendo l’una all’altra le responsabilità di un problema educativo che si manifesta in più modi e sempre più forte.

Le “identità sbiadite” non sono forse il risultato, e al tempo stesso il sintomo, di un atteggiamento culturale, figlio di un preciso progetto politico ed economico? La globalizzazione sembra portare con sé una forte necessità di omologazione, tale da produrre un distacco (qualche volta un rifiuto misto a vergogna) delle proprie origini. Prevale il desiderio di sentirsi “come gli altri” e non quello di distinguersi; pensiamo al nostro patrimonio linguistico, sia italiano che sardo, cui sembriamo disposti a rinunciare a favore (ahimè) della lingua inglese che oramai occupa nell’ambito delle comunicazioni e della divulgazione scientifica un primato che difficilmente potrà essere scardinato. La lingua appare asservita alle logiche di mercato e lo stesso discorso può esser fatto per i centri storici, investiti anch’essi dalla globalizzazione e per questo sempre più omologati e sempre meno caratteristici. Da sempre depositari di storia e cultura, appaiono oggi svuotati di significato. Sarebbe importante restituire al commercio locale, alle piccole botteghe, agli artigiani, il loro ruolo di “custodi dell’identità” dei territori. I nostri centri storici sono spazi che devono tornare a parlare di noi, a raccontarci. È necessario cambiare il nostro atteggiamento culturale e questo vuol dire essenzialmente due cose. Vuol dire anzitutto rinunciare all’intima convinzione (propria di ogni cultura) di riassumere tutto ciò che è “bello”, “buono”, “giusto”, e rinunciare a considerare tutto ciò che da noi promana indiscutibilmente apprezzabile e condivisibile. Il che equivale a prendere coscienza dei propri limiti culturali e considerare che gli altri hanno, forse, qualcosa che noi non abbiamo e che ha valore, e viceversa. Tutte le culture hanno qualcosa da apportare e qualcosa da apprendere, si tratta solo di farci promotori di noi stessi e di guardare “all’altro” con interesse ma anche con la giusta criticità.

Tirando le somme: proviamo a dare un senso, e magari un segno positivo, a questo inarrestabile processo di globalizzazione in corso. Non dobbiamo esserne vittime, spettatori passivi ma protagonisti attivi in modo che la globalizzazione non finisca con l’essere una nuova forma di colonialismo. Sono convinta si possa trovare un equilibrio tra la chiusura identitaria e una contaminazione incontrollata, tra le diversità del mondo e le esigenze di universalità. Se vogliamo pensare ad un lascito, ad un regalo per le generazioni future, niente sarà più importante per loro di forti e rassicuranti radici.

Carmen Corda

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