Premio all’artista decimese Armandì dall’ambasciatore della Repubblica Ucraina

Conferita all’artista decimese ARMANDÍ l’onorificenza al merito artistico, storico e culturale per la stele commemorativa dell’HOLODOMOR, il dolore dimenticato del genocidio ucraino

di Sandro Bandu – foto Tomaso Fenu

Sabato 24 febbraio, l’artista decimese Armandino Lecca, in arte Armandì, ha ricevuto dalle mani dell‘ambasciatore ucraino in Italia, Yevhen Perelygin, l’onorificenza al merito artistico, storico e culturale. L’onorificenza è stata conferita all’artista decimese per la stele commemorativa dell‘Holodomor (che ricorda il genocidio del popolo ucraino voluto da Stalin negli anni 1932\1933) in pietra di Nureci, che è stata inaugurata, presso il parco pubblico di Monte Claro a Cagliari, nel gennaio scorso.

La cerimonia si è svolta in una gremita sala del Policentro di via De Gasperi; sono intervenuti, oltre al succitato alto diplomatico della Repubblica Ucraina, la sindaca di Decimomannu Anna Paola Marongiu, il dottor Dino Pusceddudell’associazione Arcoiris – che si occupa di integrazione dei migranti presso la nostra comunità -, il dottor Nicola Borghero, studioso e storico, ormai da considerare un decimese adottato, e Volodimir Stepaniuk, un rappresentante della comunità ucraina a Cagliari; ha moderato la cerimonia Sandro Bandu, direttore del periodico Vulcano.

L’opera di Armandì è la prima che ricorda l’Holodomor, il dolore dimenticato, in Europa occidentale e quindi in Italia. La cerimonia ha avuto il merito di portare alla ribalta, anche qui da noi, un evento tragico che è stato volutamente occultato per oltre 70 anni, non solo dai Sovietici ma anche dai governi dell’Europa occidentale e dagli Stati Uniti. Uno sterminio studiato scientificamente, perpetrato attraverso una carestia artificiale; lì la gente morì proprio per fame, e di questo l’opinione pubblica dell’Europa occidentale è venuta a conoscenza solo dopo il crollo dell’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche). Eppure questa tragedia ha provocato la morte di 7\14 milioni di inermi e pacifici contadini ucraini, più della ormai tristemente nota Shoah dove persero la vita milioni di ebrei per mano del regime nazista di Hiltler. Non si è mai riusciti a stabilire una cifra esatta dell’ecatombe poiché, i sovietici prima e i russi dopo, hanno sempre messo un veto alla consultazione degli archivi top secret dell’ex URSS, e tuttora la Russia impedisce alle Nazioni Unite di inserire questo drammatico evento tra i genocidi dell’umanità.

Il primo a parlarne pubblicamente, nel 1986, fu l’inglese Robert Conquest con il libro “Harvest of sorrow” (raccolto di dolore), che riuscì a portare alla luce il dramma della carestia e della morte di milioni di contadini ucraini. In Italia, qualche decennio dopo, tra i primi ne parlerà lo scrittore Cinnella, il quale spiegherà come Stalin non si limitò solo a sterminare fisicamente il popolo ucraino ma, non riuscendovi, cercò anche di cancellarne l’identità e la memoria attraverso un attacco deliberato alla loro Chiesa e alla loro religione.

Ma cerchiamo di fare un po’ di luce su questa vicenda.

Negli anni ’30 il dittatore Stalin cercò di collettivizzare le terre che i laboriosi contadini lavoravano da generazioni, per regalarle ai cittadini russi che dovevano essere integrati in Ucraina. C’è da dire che l’Ucraina è una terra molto arida e aspra e che i cittadini ucraini l’avevano resa rigogliosa grazie a imponenti infrastrutture idriche di dighe e canali. L’acqua dolce raccolta e canalizzata aveva così respinto l’acqua salmastra che proveniva dalle falde. Però Stalin non aveva fatto i conti con i ribelli ucraini che non vollero cedere le loro terre, e peranto usò la forza e l’esercito per non permettere ai contadini di lavorare la terra, unica risorsa di sussistenza. Li lasciò letteralmente morire di fame: si verificarono molti casi di cannibalismo.

Debbo ammettere che se oggi non stessimo qui a festeggiare Armandì, per me l’Holodomor sarebbe una storia dal sapore horror nata dalla mente contorta che solo un eccellente scrittore del settore può ideare. Ho inserito la parola Holodomor nei motori di ricerca web e quello che vi ho trovato è stato sconvolgente: riporto testualmente alcuni passaggi.

Non voglio modificarli, perchè inconsapevolmente potrei stravolgere non tanto il senso, ma il crudo realismo di chi li ha descritti.
…Nel 1932 Stalin decide di imporre l’agricoltura collettivizzata a 10 milioni di Kulaki, gli agricoltori indipendenti ucraini. Per piegarli, l’ordine è ridurli alla fame. I confini dell’Ucraina vengono sigillati, il cibo e i carburanti confiscati. Olena Goncharuk è una sopravvissuta all’Holodomor, termine che designa l’orrore di quei mesi.

Avevamo paura di camminare per il villaggio – ricorda Olena -, perché i contadini morivano di fame e andavano a caccia di bambini. Ricordo che la mia vicina di casa aveva una bambina. Un giorno però questa bimba scomparve. Andammo a casa sua. Le avevano tagliato la testa. E stavano cuocendo il corpo nel forno”.

In pochi mesi l’Ucraina, granaio dell’Unione Sovietica, viene spogliata del suo raccolto. Nel ricordo dei sopravvissuti torna spesso quello dei carri a cavallo. Triste presagio che annunciava l’arrivo delle brigate staliniane preposte alla confisca del grano. Oppure, come ricorda ancora Olena, alla rimozione dei cadaveri, di chi aveva perso la sua sfida contro la fame.

Una volta sono andati a casa di una donna per portarne via il corpo – racconta ancora Olena-. Lei era però ancora viva, e con un filo di voce ha detto loro che ancora respirava. ‘Tanto in un modo o nell’altro morirai – le risposero – e domani non vogliamo tornare indietro per te”.

Nel cimitero di Targan c‘è una fossa comune. Qui sono sepolti 400 corpi di contadini bruciati vivi. Milioni le vittime che l’Holodomor ha fatto in totale, ma la cifra esatta resta da determinare. Una politica espressamente adottata per piegare il nazionalismo ucraino.

C’era la carestia in altre regioni dell’Unione Sovietica, in Kazakistan, per esempio, ma i kazaki potevano muoversi per cercare cibo nelle regioni russe vicine o in Kyrgyzstan e Uzbekistan – dice lo storico Volodymyr Serhiychuk -. Ma gli ucraini non avevano alcuna possibilità di andare in Bielorussia o in Russia perché i confini erano chiusi e non potevano acquistare biglietti del treno”.

I Kulaki, gli agricoltori ucraini non volevano riunirsi nei Kolchoz, le cooperative agricole – prosegue Serhiychuk -. Si rifiutavano di consegnare ai bolscevichi il loro raccolto ed è per questo che i Bolscevichi risolsero alla fine per un’opzione drastica: quella di ucciderli, facendoli morire di fame”.

A ricordare l’Holodomor c’è oggi a Kiev un monumento alle vittime. Eretto, in una sorta di simbolica nemesi, proprio davanti alla Chiesa di San Michele, che ha preso vita dalle macerie di quella che i sovietici avevano raso al suolo.

Questa è solo una parte del tanto materiale che vi è su internet sull’Holodomor-il dolore dimenticato, una tragedia volutamente occultata e dimenticata che affonda le sue radici nella collettivazione forzata delle campagne voluta da Stalin e che rappresenta una delle pagine più nere del comunismo sovietico.

Adesso mi viene in mente il famoso detto “I comunisti mangiavano i bambini!”. È proprio vero: niente nasce dal caso… La verità è che la collettivizzazione integrale si risolse anche con una catastrofe economica. Stalin, massacrando e deportando gli auctotoni, inizialmente riuscì anche a cancellare la memoria ucraina, ma le giovani generazioni non furono in grado di far funzionare quelle infrastrutture idriche che i laboriosi, ma direi anche ingegnosi, contadini ucraini avevano messo in opera per rendere rigogliosa una terra arida e aspra che ricorda tanto la nostra Sardegna.

Nei decenni successivi, purtroppo, l’Ucraina conobbe un’involuzione in ambito agricolo che venne soppiantata dall’assistenzialismo e dall’aiuto economico inviato da Mosca. Ecco perchè il calvario dell’Holodomor creò tra Ucraina e Russia un baratro che non si è mai più colmato, e nessuno sà quando questo potrà avvenire.

Chiudo questo articolo esaltando la grandezza di Armandì: quella di aver dato voce e memoria, attraverso l’arte, a un popolo che, nonostante l’enorme tragedia, non si è piegata e a caro prezzo è rimasta viva e si è rimessa in piedi.
Grazie Amandino Lecca, in arte Armandì, l’onoreficenza a te conferita rende noi decimesi orgogliosi di avere tra di noi un concittadino della tua statura morale e artistica.

Vulcano n° 95

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