75 candeline per Rombo di tuono
di Fabrizio Racis
Se pensiamo ai numeri di maglia nel calcio, alcuni abbinamenti ci vengono spontanei: la numero 10 a Pelé, Maradona, Platini o a Baggio, Del Piero e Totti, la numero 5 al “Divino” Paulo Roberto Falcao, la 6 a Gaetano Scirea o Franco Baresi e così via. L’associazione alla maglia numero 11 diviene automatica, quando si parla di Gigi Riva. Il mitico Rombo di Tuono del calcio italiano, come lo soprannominò Gianni Brera per la potenza del suo tiro, con il piede che quando incocciava il pallone produceva un “boom” che ricordava proprio quello del tuono.
Oggi il Cavaliere Luigi Riva compie 75 anni. Oltre ad essere considerato il più grande attaccante italiano del dopoguerra, a fare di lui una leggenda sono soprattutto i valori umani di cui si è fatto portatore e che sembrano appartenere ormai a un altro calcio. Il suo fascino continua a rimanere indelebile nonostante l’avanzare del tempo e la predominanza delle nuove tendenze del calcio moderno. Nato a Leggiuno, in Lombardia, il 7 novembre del 1944, al termine della sua carriera calcistica ha deciso di rimanere a Cagliari diventando sardo a tutti gli effetti.
Quella di Gigi Riva è la favola di un tempo lontano. Quando il calcio nasceva all’oratorio e una giovane, grande speranza del Laveno prima e del Legnano poi si allenava tutte le sere, ma la mattina la passava a lavorare in officina. Quando era un lusso comprare un paio di scarpe nuove, figurarsi un cappotto, e quei pochi soldi dei primi premi-partita servivano per mettere insieme il pranzo con la cena.
Quando gli si chiede di raccontare la sua storia, è come cliccare sul tasto “play” di un lettore DVD e trasmettere sullo schermo della TV i ricordi e le immagini: nell’estate del 1963 lo sbarco in Sardegna con i dubbi e la nostalgia del ragazzino timido e taciturno rimasto orfano nell’adolescenza, l’impatto con l’isola e la voglia di tornare a casa. In lontananza dalla finestra dell’albergo del Golfo degli Angeli, le ciminiere della Saras di Sarroch scambiate per le luci dell’Africa. E poi i gol, le vittorie, le amicizie, lo scudetto. Ma anche gli infortuni, le sofferenze e le delusioni. Ma soprattutto l’amore per la Sardegna.
Ma i numeri non raccontano tutto e non possono spiegare perché la nostra splendida terra, circondata dal mare e dal disinteresse di un’Italia più matrigna che madre, lo ha adottato come il più caro dei suoi figli e oggi, tutti noi sardi festeggiamo, come sempre con riservatezza, il nostro eroe. Riva si è innamorato della Sardegna e della nostra gente, arrivando a rifiutare le offerte delle squadre più prestigiose pur di rimanere a Cagliari. Grazie anche a questo atteggiamento e a queste scelte, è divenuto una vera e propria bandiera rossoblù che non tradirà mai.
Un calciatore amato dai propri tifosi e rispettato da tutti gli altri. Tuttavia questa scelta gli precluderà di vincere trofei e competizioni che la sua immensa classe gli avrebbe di sicuro fatto raggiungere in squadre di più alto blasone. La Juventus arriva addirittura a offrire al Cagliari un miliardo e sette giocatori. Nel 1973 l’affare sembra chiuso. «Rifiutai con rabbia. Mi avevano ceduto senza interpellarmi, come una bestia. Da qui non me ne vado, dissi, prendo un bel chiodo e ci appendo le scarpette». Due parole centrali nel vocabolario di Riva sono lealtà e riconoscenza.
Riva divenne per sempre l’idolo di una regione intera, la Sardegna, ben diversa da quella attuale, quella della Costa Smeralda e dei grandi resort, dei “briatori” estivi, pullulante di “veline” e “Lucignoli”, molto più simile all’isola che generò Grazia Deledda, Antonio Gramsci, Enrico Berlinguer e che stregò in maniera totale Fabrizio De André, il suo cantante preferito. Un’isola che lo venera tutt’ora come un semidio. Ancora oggi si vedono i suoi poster e le sue foto nei bar, nei mercati e nelle botteghe artigiane, affiancate da immagini sacre come quelle del Cristo e della Vergine Maria: una terra che lo ha consacrato e lo consacra ai giorni nostri, idolo inarrivabile, a livelli di un Achille o di Riccardo Cuor di Leone, guerrieri nel pieno dell’iconografia del mito. Condottiero e rivoluzionario, sardo più di tanti sardi che attraverso il calcio ha condotto la riscossa della Sardegna. Un metro e ottanta di muscoli, 78 chili di potenza. Sguardo severo alla Tex Willer, l’amata e odiata sigaretta perennemente in bocca, la mascella squadrata. Questa è l’immagine del leggendario bomber rossoblù, un pistolero solitario del Far West.
Una strepitosa carriera in maglia rossoblù lunga 13 anni con 156 reti in serie A e lo storico scudetto del suo Cagliari che si laureò Campione d’Italia nel torneo 1969-70. Quella formazione i tifosi sardi e quelli italiani diversamente giovani la ricordano ancora a memoria (Albertosi, Martiradonna, Zignoli, Cera, Niccolai, Tomasini, Domenghini, Nenè, Gori, Greatti, Riva) così come i gol di quest’ultimo, belli e talvolta impossibili. Le rovesciate (leggendaria quella a Vicenza nel 1970) e i tiri al fulmicotone (come si diceva allora) con il suo leggendario e potente sinistro. Le serpentine tutta tecnica e potenza tra i difensori avversari e i colpi di testa acrobatici a volo d’angelo che lasciavano ad occhi spalancati il pubblico come quella a Napoli contro la Germania Est in maglia azzurra, sono diventati un must calcistico. L’allenatore di quella squadra era il “filosofo” Manlio Scopigno, così soprannominato per le sue teorie all’avanguardia su allenamenti, stili di vita degli atleti e tattiche che, in quel periodo di marcature a uomo e credi stereotipati, somigliavano più a filosofie (per l’appunto) che a metodi sportivi. Lui, tanto per dirne una, concedeva a Riva di dormire fino a tardi la mattina (il bomber gradiva moltissimo) e di allenarsi poi dalla tarda mattinata al pomeriggio. Tanto sapeva che, una volta in campo, avrebbe risolto le partite da solo, forte com’era. A dimostrarlo ci sono ancora i 35 gol con la nazionale in 42 partite, nessun altro ha segnato più di lui in maglia azzurra. Con l’Italia vinse gli europei nel 1968 e arrivò secondo in Messico nel 1970, perdendo in finale contro il mitico e invincibile Brasile di Pelè. Il cannoniere rossoblù ha anche vinto per ben tre volte la classifica dei cannonieri nel 1967, 1968 e 1970 segnando rispettivamente 18, 20 e 21 gol. Nel 1972 segnò 21 reti in 30 partite. Nel 1969 e nel 1970 sfiorò il Pallone d’oro (arrivò rispettivamente al secondo e terzo posto), quando quella classifica non era lo specchio dei desideri degli sponsor. Ultimo in ordine di tempo, ma non meno importante, il grande riconoscimento rappresentato dal Collare d’oro al merito sportivo, ricevuto dal presidente del Coni Giovanni Malagò davanti al pubblico del Sant’Elia il 12 febbraio 2017.
Riva visse momenti travagliati che rovinarono la sua carriera e si procurò due gravi infortuni con la nazionale: una frattura del perone sinistro nel 1967 contro il Portogallo e una frattura del perone destro contro l’Austria a Vienna nel 1970. Senza quell’entrata assassina di Hof, il Cagliari avrebbe vinto a mani basse il suo secondo scudetto. Terminò la carriera nel 1976 a soli 31 anni, in seguito ad un altro grave infortunio (strappo muscolare) nella sua ultima partita il 1° febbraio (Cagliari-Milan, 1-3). Finito il gioco in calzoncini corti arriva il momento dei giovani. Nasce la scuola calcio Gigi Riva.
Dopo un periodo in cui dirige il Cagliari nel ruolo di presidente, Gigi Riva nei primi anni ’90 approda nello staff della nazionale dove, fino al 2013, anche con il susseguirsi negli anni di vari Commissari Tecnici, ha svolto il ruolo di Team Manager, diventando il “padre” di tutti gli azzurri. Nella stagione 2004-2005, la maglia numero 11 a lui riservata negli anni in cui calcava i campi di gioco, è stata ritirata dalla società Cagliari Calcio. Non c’è un cagliaritano che non lo ami e non lo rispetti. Hanno sempre incuriosito il suo carattere riservato, le cene in solitaria nei ristoranti cagliaritani, le sue passeggiate tra via Paoli e via Dante.
Gigi Riva è quello che non rilascia quasi mai interviste, non fa ospitate, preferisce parlare poco, ma se sente di dover dire qualcosa, la dice. Gigi Riva uomo e atleta da ammirare e prendere come modello di vita. Riva è uno di quegli uomini che non esistono più, che nonostante la fama è stato ed è una persona umile tra gli umili. Uomo generoso che ama profondamente la Sardegna e rimarrà per sempre legato al suo popolo. Nonostante il silenzio e nella solitudine volontaria degli ultimi anni, Riva lancia spesso messaggi d’amore per la sua Cagliari: «Ero senza famiglia e ne ho trovate tante. La gente mi è vicina come se andassi ancora in campo. E questa per me è la cosa più bella».
Il 7 novembre tutta la Sardegna soffia sulla tua torta con 75 candeline. Cinque in più del numero 70, quel numero che rappresenta l’anno del mitico scudetto che ci hai regalato: perché per noi gente sarda, per quest’isola bella e misteriosa, tu rappresenti l’archetipo del sogno, il simbolo di una gloria che resterà per sempre. Le tue imprese, i tuoi gol, le tue gioie e i tuoi dolori sono un immenso canto popolare, che parte da Cagliari e arriva in ogni parte della terra sarda.
Eternamente grazie, Gigi