Bujumannu: una vita Senza Confini

a cura di Brice Grudina

Foto Gioele Pinna

Patrimonio orale e immateriale dell’Unesco dal novembre 2018, il reggae è un genere musicale che alterna sonorità nordamericane e caraibiche e che nasce in Giamaica nella seconda metà degli anni Sessanta, prima di diffondersi, come un fulmine, nel resto del mondo.

Ancora oggi, esistono visioni e teorie contrastanti circa l’origine di questa parola. Per alcuni, il termine reggae fonderebbe le sue radici nella lingua spagnola con il significato di “la musica del Re”, per altri invece, esso deriverebbe dal suono onomatopeico “re-ggae re-ggae”, associato al ritmo lento della chitarra. Tuttavia, per i sostenitori più fedeli, il reggae non è un semplice genere musicale, ma un vero e proprio stile di vita, dai tratti ascetici e religiosi.

Lo sa bene il cantante sardo Simone Pireddu, 48 anni, in arte Bujumannu che, prima di un suo atteso concerto, durante una breve pausa, mi ha raccontato un po’di lui e della sua profonda esperienza nel campo della musica.

 

Buonasera Simone, volevo porti una domanda che sicuramente in tanti ti avranno già posto: come mai hai scelto lo pseudonimo di Bujumannu? Potresti dire a tutti che vuol dire?

“Buju” in dialetto giamaicano vuol dire “Piccolo”, “Mannu” invece, secondo il dialetto sardo locale, vuol dire “Grande”. Mi piaceva questo accostamento, e da qui è nato il mio pseudonimo.

 

Da quanto tempo canti, e cosa ti ha spinto a cantare?

Ho iniziato a cantare fin da ragazzo, intorno agli anni ’80, praticando al debutto il genere hip hop. Poi, sono entrato a far parte di un gruppo musicale chiamato Skami Ska. Eravamo una delle prime band a suonare musica in levare in Sardegna e fuori Sardegna: abbiamo avuto la fortuna di conoscere tanta nuova gente e tante nuove cose, al di là della nostra amata terra. Personalmente, invece, posso dirti che mi sono avvicinato alla musica perché avevo voglia di dire la mia. Avevo voglia di rappresentare e di denunciare un qualcosa. Avevo voglia di raccontare un po’di me, un po’ della mia vita, un po’delle mie storie, e parlare di tutto ciò che io sapevo. Alla fine, fortunatamente, questa grande voglia è diventata professione.

 

Quali sono le emozioni che provi quando canti sopra un palco?
Per uno che insegue quel sogno, è un qualcosa di quasi indescrivibile, davvero … a prescindere da quale sia la grandezza del palco, l’emozione è sempre immensa e difficile da esprimere.

 

Puoi spiegarci perché hai scelto proprio il reggae?

Penso che sia stato il reggae a scegliere me. In vita mia, ho ascoltato un po’di tutto: hip hop, rap-core, hard core, ska-core, e poi man mano che crescevo ascoltavo sempre più reggae, forse perché, per fare una battuta, invecchiando avevo bisogno di sentire un genere più lento e forse più tranquillo. In realtà, non conosco la mia vera motivazione ma so, che a un certo punto della mia vita, il reggae mi ha stregato. Ho iniziato ad ascoltare Bob Marley, Peter Tosh, i più grandi e famosi della scena: questo genere è diventato fonte di ispirazione per tutta la mia vita anche se, ad essere sincero, il Rastafarianesimo non rispecchia totalmente il mio attuale punto di vista.

 

Per Bob Marley il reggae è inno alla libertà, alla fratellanza e alla pace. Quale sarebbe invece il tuo pensiero? Rispetto a tempo fa, ci stiamo avvicinando a questi tre ideali oppure manca ancora tanta strada da fare?

Sinceramente, per me che sono cresciuto negli anni ’80 e ’90, la percezione è che purtroppo, al contrario, ci stiamo allontanando da tutto ciò che è umano. Ci stiamo allontanando dall’esser solidali e sensibili. Lo siamo, certo, ma forse troppo in apparenza. In realtà, chi lavora per davvero per i diritti dell’Uomo non sta tutto il tempo a pubblicare tutto quello che fa mediante i nuovi Social. E oggigiorno, lo sappiamo, ci informiamo principalmente da lì.

 

Quale è il ricordo più bello che conservi della tua musica?

Forse nel 2006 con i Train To Roots quando abbiamo vinto il contest per il Rototom Sun Splash. Ricordo che ci eravamo iscritti senza troppe pretese, giusto per poter dire che c’eravamo anche noi. Concorrevano tutti i maggiori gruppi italiani del momento, e abbiamo vinto! È stata un’occasione per far parlare di noi e della nostra Sardegna. Non ce lo aspettavamo! Poi che dire, ho tantissimi bei ricordi, e ogni singolo passo che ho fatto mi ha portato fino a qui, fin dove sono ora.

 

Foto di Francesco Mura

Potresti spiegare ai lettori chi sono i Train To Roots?

È una band nata a Sassari, nel 2004, da persone provenienti da tutta la Sardegna. Ora siamo in cinque ma un tempo siamo stati pure in dieci. È una famiglia che pian piano è cresciuta musicalmente diffondendo con amore il proprio messaggio in tutta Italia e in giro per l’Europa. Abbiamo trovato negli anni la giusta sintonia ed il giusto equilibrio e non a caso, a metà dicembre, è stato pubblicato il nostro nuovo album.

 

Quale sarebbe, a tuo avviso, la principale funzione del cantante?

È riduttivo poter pensare che un cantante abbia una funzione perché, comunque, è molto relativo e molto soggettivo. Ma ti posso spiegare perché mi piace essere un cantante: essere un cantante ti offre un’arma potentissima, come la musica, per poter parlare e comunicare alle persone. Sarebbe bello se tutti i cantanti usassero la propria musica per lanciare un messaggio sociale, ma anche per offrire delle prospettive migliori rispetto a quelle che a volte ci passano dalla televisione. Io la prendo come una missione.

 

E quale sarebbe la tua missione?

La mia missione è quella di far sorridere e di far stare bene la gente perché, se tutti stanno bene, allora sto bene anche io, in automatico. Quando mi dicono «Grazie per la tua musica, mi hai cambiato la giornata!», è per me una soddisfazione troppo grande.

 

Nelle tue canzoni si avverte un forte legame con la tua terra, la Sardegna. Ma è davvero così forte questo legame?

Non posso non menzionare nei miei dischi la Sardegna. Nella musica, mi è sempre piaciuto parlare del vero, di ciò che ho vissuto in prima persona, quindi in essa c’è molto della mia vita e altrettanto della mia terra. Non a caso, nel mio nuovo album, intitolato Senza Confini, ho voluto inserire di proposito diverse sonorità sarde: come l’organetto di Pier Paolo Vacca, le launeddas di Matteo Muscas, i tenores, Su sulittu e molti altri richiami della nostra splendida isola.

 

Una delle tante funzioni del cantante potrebbe essere quella di tramandare le proprie tradizioni, sei d’accordo?

Assolutamente! Lo può fare un cantante con la sua musica come lo può fare ad esempio un pittore, attraverso i suoi colori.

 

Secondo te, in che modo la lingua sarda andrebbe diffusa maggiormente?

Si potrebbe diffondere maggiormente la nostra lingua partendo dalle cose più piccole, per esempio attraverso delle storie a fumetti o con dei cartoni animati, incentivando le scuole, e con una maggiore presenza da parte delle istituzioni.

 

Parlaci del tuo ultimo album, Senza Confini.

Senza Confini è il mio terzo album da solista e contiene ben quindici brani. Ho iniziato a lavorarci nel periodo della pandemia e, infatti, si sente parecchio la mia voglia di libertà e di umanità, la mia voglia di volare, anche solo con il pensiero, vivendo ogni attimo prezioso della vita. Ho lavorato duramente per fare in modo che fosse un album maturo.

Cosa ti auguri per il tuo futuro?

Una vita sana, lunga e luminosa, circondato da tante persone che siano in armonia con sé stessi e con gli altri. Vorrei continuare a regalare tanta bella musica, con tante belle canzoni. Vorrei continuare a girare il mondo e visitare l’Africa.

Perché proprio l’Africa?

Perché tutto è nato da là. Sento un richiamo fortissimo. In posti del genere, è ancora possibile percepire veramente l’essenza dell’Uomo.

 

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