Carlo Ligas: «Disegno in ricordo dei popoli oppressi»

a cura di Brice Grudina

 

L’arte non ha epoca. È l’emozione che dorme su guanciali d’eternità”.

(Antonio Aschiarolo)

 

A Sarroch, durante le mie pause caffè, sentivo spesso parlare di questo grande artista locale, un certo Carlo Ligas, “Cochise” per gli amici, soprannome affibbiatogli – da quel che si racconta nel paese – per la sua lieve somiglianza con il celebre condottiero americano e per la sua innata e profonda passione per gli nativi americani.

È così che, un pomeriggio, spinto dalla novità e dalla curiosità del momento, decido di bussare alla sua porta e di far visita al suo studio. Lui mi accoglie con un sorriso e con gioia mi mostra i suoi lavori, ogni angolo del suo prezioso atelier. Poi educatamente mi prepara un buon caffè, decide di farmi accomodare, accende una sigaretta, e mi racconta un po’ di lui.

 

Buongiorno Carlo, puoi presentarti ai lettori?

Certamente! Mi chiamo Carlo, Carlo Ligas, ma come ben saprai in molti mi conoscono come “Cochise”, per la mia passione per i nativi americani. Ancora oggi, a distanza di secoli, sento scorrere nel sangue il martirio di queste persone. Avevano una filosofia straordinaria. Nessuno come loro rispettava gli animali, l’ambiente e la natura.

 

Posso chiederti come mai disegni?

Disegno perché mi aiuta a rilassarmi e a ritrovare la forza. Inoltre, credo nella divina esistenza. Mi piace pensare che Dio mi abbia donato il dono dell’arte per uno scopo ben preciso. Per il bene dei popoli più sofferenti e per il bene della nostra comunità.

 

A quanti anni hai cominciato a disegnare?

Da quando ero molto piccolo, grazie a mio zio, Luigi Ornano, orafo in pensione, che insisteva a cinque anni nel farmi disegnare. Mi ricordo ancora oggi le sue frasi: “Carlo, non preoccuparti se sbagli, esistono le gomme da cancellare. Se una linea va storta, puoi riprovarci!”. Davvero, ho avuto una grossa spinta da lui. Posso inoltre confermare, non per vantarmi, che nelle scuole elementari, nel disegno, ero il più portato.

 

Quante opere hai realizzato in vita tua?

Io creo dipinti, caricature, ritratti e murales. Di opere, devo dire, ne ho realizzate davvero tante, ma sinceramente ho perso il conto, forse un duemila. Alcune di esse sono conservate qui in studio, altre, fortunatamente, sono state vendute.

 

Quando è stato venduto il tuo primo disegno?

Il mio primo disegno l’ho venduto a nove anni. Avevo riprodotto un paesaggio ispirandomi ai girasoli di Van Gogh. All’epoca mio padre lavorava in una sartoria e un cliente notandolo gli chiese: “Mi scusi, a chi appartiene quel disegno?”. E mio padre felicemente rispose: “A mio figlio!”. Il cliente, quasi incredulo, decise allora di comprarlo.

 

Oltre a Van Gogh, a chi ti ispiri? Quali sono i tuoi pittori preferiti?

Ho un debole per gli artisti rinascimentali: Leonardo, Michelangelo, Raffaello. Quando posso nei miei quadri, cerco di fare un mix di tutti questi artisti, convogliandoli in un’unica opera.

 

Cosa ne pensi dell’arte di oggi?

L’arte di oggi si lega perfettamente alla società del momento, per me in profonda crisi. L’arte non è più in grado di emozionare. È spinta dal guadagno, dall’affermazione e non dal sentimento umano. L’arte odierna mi sembra più una moda che una reale esigenza. Il grande artista è colui che trasmette “emozioni connesse”, non egoistiche, ovvero colui che ti fa scendere una lacrima.

 

Nei tuoi quadri si scorge spesso l’anima di un popolo e di una terra. Poco fa, ci hai raccontato del tuo amore per gli nativi americani. Cosa ne pensi, invece, della tua terra natale, la Sardegna, e del popolo sardo?

Tra il popolo dei nativi americani e il popolo sardo c’è una grande somiglianza. A tal proposito, ho realizzato un’opera (da poco venduta), intitolata “Fusione dei due popoli”, che racconta ed esprime la fusione, appunto, tra il popolo sardo e l’antico popolo americano. Si tratta di una fusione molto personale e soggettiva. Entrambi vivono un rapporto molto forte con la propria terra e con la propria cultura. Amano la tradizione e sono molto spirituali. Nello specifico, provo rispetto e grande empatia nei confronti dei pastori sardi locali che stanno tutto il giorno a contatto con la terra e la natura, conducendo una vita di stenti e sacrifici.

 

Nei tuoi quadri, dai spazio alla sola rappresentazione reale, o ti ispiri anche ai tuoi sogni?

Anche in questo caso, a seconda dei momenti, amo fondere la realtà al sogno, e viceversa. All’elemento realistico, amo far congiungere l’elemento onirico, surreale e fantastico. Per farti capire, utilizzo una metafora che col tempo si è trasformata in un mio nuovo disegno: “Il pettegolezzo”, in sardo “Su troddiu”. Il pettegolezzo, soprattutto nei paesi, nasce alla base da un elemento reale ma che spesso si trasforma, ingigantendosi, in un elemento irreale o fantastico.

 

A questo punto ti chiedo, quale è il tuo sogno nel cassetto?

Vorrei principalmente lasciare qualcosa alle generazioni future. Vorrei essere il portavoce delle persone emarginate, dei disperati, di tutti quei popoli oppressi e abbandonati che hanno subito e che ancora oggi subiscono ingiustizie e atrocità, dove nessuno è risparmiato, nemmeno i bambini. Provo tanto dispiacere per tutti loro.

 

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