Estetica della partecipazione, “Deu ci seu”

di Giancarlo Pillitu

Quando si analizza un docufilm, come nel caso dell’avvincente Deu Ci Seu (2023), diretto da Michele Badas e Michele De Murtas, risulta quasi inevitabile tenere presente il principio nietzscheano secondo il quale non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Tuttavia, è anche vero che le interpretazioni non sono tutte uguali. Ci sono interpretazioni maggiormente sorrette da testimonianze e più significative rispetto ad altre.
Le interpretazioni si configurano allora come ricostruzioni che fanno emergere aspetti inediti che arricchiscono la realtà. Luci ed ombre che si inscrivono in una concezione della verità intesa come epifania. La verità come epifania, sulla scia di Hegel, è un prodotto fenomenologico. Nel senso che scaturisce da una descrizione che è, al tempo stesso, una ricostruzione ed una interpretazione.
Deu Ci Seu racconta l’epopea di un intero popolo, circa ventimila sardi, che si sentono chiamati a sostenere la squadra simbolo dell’intera isola, il Cagliari. L’evento tanto atteso, che arriva dopo l’insperata vittoria sul Milan a San Siro, è lo spareggio disputato in campo “neutro”, a Napoli, contro il Piacenza, per scongiurare la retrocessione in serie B. Una salvezza che vale quanto uno scudetto.
Siamo trasportati con ritmo incalzante in un viaggio a ritroso nel tempo, verso l’ormai lontanissimo giugno del 1997. Lontanissimo non solo cronologicamente, ma anche storicamente, perché, com’è ovvio, ventisei anni fa non erano diffusi i cellulari, né esistevano WhatsApp o i vari social network, che hanno rivoluzionato il modo di stare insieme, di comunicare, di condividere.

Badas e De Murtas con la loro ricostruzione mettono in scena una vera e propria estetica della partecipazione. Lo spettatore è catturato dalla vista di volti, corpi, colori, cibo (pietanze gastronomiche tipiche), bevande (immancabili il vino e la birra), striscioni, bandiere, traghetti gremiti di persone festanti. Una moltitudine che vive lo stesso sogno: una vittoria sportiva, ma soprattutto la convinzione di contribuire con la forza della propria presenza all’esito agognato. Un’estetica della partecipazione che è anche un’estetica della presenza. L’estetica della presenza si riferisce alla descrizione, sul piano della sensibilità, della metamorfosi di un sogno in fenomeno. Il film recupera e organizza in modo suggestivo e con cadenza impeccabile tutti gli elementi che manifestano la progressiva trasformazione onirico-partecipativa.
Ma, parallelamente all’estetica della partecipazione, si articola un’etica della partecipazione. La condivisione del cibo, delle bevande, dell’entusiasmo; il clima di festa; il sostegno e la solidarietà reciproci. Sembra di assistere al superamento del principio di individuazione.
Si condivide un sogno. Un sogno ad occhi aperti che si materializza nelle voci, nei cori, negli abbracci, nelle urla e nelle battute. E nella capacità di tollerare i disagi di una trasferta che si rivelerà sempre più sofferta.
Il film è anche una fenomenologia della mobilitazione. Il sogno dei sardi che si mobilitano in questa estenuante odissea coincide con la ricerca di riconoscimento. Ci si mobilita per essere riconosciuti. Riconosciuti come popolo. Come identità. Non un’identità che esclude l’altro, ma, al contrario, un’identità che include.
Ma non è facile essere compresi, in questa aspirazione, ingenua ma legittima. Anzi, l’incomprensione diventa un destino tragico. Un intero popolo che si mobilita, che attua un esodo e, nella percezione e nell’immaginario comune, “pretende” di “invadere” un porto “straniero”, una città “straniera”, spaventa, suscita preoccupazioni nelle autorità, alimenta pregiudizi e invidia e provoca scherno, derisione e vandalismo in chi è intrappolato nella logica della guerriglia urbana e ama lo scontro fine a se stesso, l’offesa e l’odio.
I registi di Deu Ci Seu operano secondo un’etica della testimonianza, che riesce a canalizzare, attraverso le vivaci interviste proposte, passione ed autenticità nella ricostruzione dei fatti e a rendere giustamente protagoniste le persone comuni, come nel miglior cinema di Clint Eastwood.

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