Donne e politica. La doppia preferenza e il gineceo dell’onorevole
Dal Vulcano 104
di Alberto Nioi
La richiesta di partecipare più attivamente e con ruoli di peso alla vita sociale, politica ed economica che arriva dal mondo femminile è un processo che, a partire dagli anni della contestazione giovanile del ’68, è andato via via crescendo sino ad imporsi oggi come rivendicazione collettiva in grado di condizionare l’evoluzione culturale della società moderna.
In Europa, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000) ad oggi, è stato un susseguirsi di direttive, risoluzioni e regolamenti volti a promuovere la parità di genere in tutti i campi, tanto nelle istituzioni dell’Unione quanto degli Stati membri.
In Italia, con la modifica dell’articolo 51 della Carta Costituzionale, avvenuta nel 2003, si è avviato il progressivo adeguamento della normativa in tema di pari opportunità tra donne e uomini in materia elettorale, in relazione all’accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive.
Con la legge 23 novembre 2012 , n. 215, negli enti locali e nelle regioni si è promosso il riequilibrio delle rappresentanze di genere negli organi elettivi ed esecutivi introducendo, per esempio, la doppia preferenza nelle votazioni per l’elezione diretta del sindaco nei comuni con oltre 5000 abitanti.
Nelle ultime elezioni europee del 2019 per la prima volta si è votato nel rispetto di quanto previsto dalla legge 22 aprile 2014, n. 65, che ha introdotto dei meccanismi a garanzia della rappresentanza di genere, sia nella composizione delle liste di candidati che nella modalità di voto (con la possibilità di votare sino a tre candidati ma di sesso diverso).
Altre disposizioni normative del 2016 e 2017 hanno introdotto nel sistema elettorale per l’elezione dei membri del Parlamento alcune disposizioni in favore della rappresentanza di genere e indicato alle Regioni i principi fondamentali su cui basare i propri sistemi elettorali a sostegno delle pari opportunità tra uomini e donne nella costituzione delle assemblee elettive.
Recentemente il Consiglio regionale sardo ha dovuto adeguare il proprio sistema elettorale – definito dalla Legge Regionale Statutaria – modificandolo nel dicembre 2018, anche in questo caso introducendo la doppia preferenza.
Come si può notare, se pur a fatica e con tempistiche differenti nei diversi enti territoriali dello stato, un quadro normativo tendente a sostenere l’effettiva realizzazione dell’uguaglianza di genere si va ormai delineando.
Quello che occorre capire è se a questo rinnovamento che sta interessando le istituzioni e la politica si accompagni un effettivo cambiamento culturale nella società, che poi rappresenta il vero punto di caduta di questo processo, per i riflessi positivi che si produrranno in ogni settore nel vivere quotidiano della donna moderna.
Una domanda a cui la risposta non può che essere interlocutoria, non ancora definitiva, se andiamo a pesare, a verificare quali numeri stia producendo questa lenta riforma.
Se a livello territoriale le giunte e i consigli comunali hanno visto crescere indubbiamente la presenza femminile, la stessa cosa non può dirsi capiti nelle assemblee regionali, vere roccaforti del potere politico, che restano e resteranno, chissà ancora per quanto, saldamente in mano agli uomini.
Soffermandoci sulla nostra realtà: su 60 consiglieri regionali eletti in Sardegna nel 2019 solo nove sono le donne (il 15%) e di queste ben quattro sono espressione di un’unica lista che ha eletto un gruppo composto al 50% da donne e uomini: unico caso, eccezione che conferma la regola.
Questo significa che il resto delle elette costituisce il 10% dei restanti 52 consiglieri regionali, un dato ben lontano dal rappresentare in modo equilibrato entrambi i generi.
Se scendiamo nel dettaglio vediamo che le prime quattro forze politiche, che hanno raccolto in totale quasi il 43% di voti nell’isola, alla fine hanno eletto in Consiglio Regionale solo tre donne.
Stiamo parlando di partiti importanti, degli stessi partiti che nei propri statuti si impegnano a «rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla parità di genere nella partecipazione politica», per citarne uno a caso.
È evidente che lo strapotere maschile in politica non lo si arginerà facilmente con qualche modifica alla normativa elettorale, posto che qui si definisce politica ciò che in verità è soprattutto un sistema di consenso fatto di elargizioni, nomine, raccomandazioni e controllo capillare del territorio maturato e cristallizzato in anni di governo e sottogoverno.
Potere che con abilità e intelligenza si manifesta in primis in una totale padronanza della materia elettorale, capace di trarre vantaggio anche da quelle disposizioni normative che teoricamente servirebbero a placare, piuttosto che alimentare, lo straripante dominio maschile.
Prendiamo il caso della doppia preferenza di genere, il voto che può essere espresso per due candidati ma di sesso diverso.
Quanti big di partito abbiamo visto nel corso dell’ultima campagna elettorale accompagnarsi generosamente ad aspiranti consigliere, ritratti sul materiale elettorale distribuito ad ogni angolo di strada? Parecchi.
Si chiama ticket ed è il “santino” che sponsorizza una coppia di candidati, che vede quasi sempre lui politico di lungo corso e lei semisconosciuta alla prima candidatura; lui concentrato sulla riconferma a fare incetta di voti e lei entusiasta e speranzosa.
Com’è possibile che una norma nata per offrire maggiori opportunità alle candidate e che sulla carta, nella sua semplicità, sembra avere i requisiti giusti, nella pratica sia stata trasformata in uno strumento per mortificarle ed escluderle ancor di più?
È possibile, perché la campagna elettorale, momento in cui si intercetta una quota significativa di consenso, andrebbe regolamentata anche sul piano etico, e così non è. I partiti avrebbero il dovere di vigilare sui comportamenti moralmente discutibili dei propri candidati invece, soprattutto ora che queste organizzazioni sono in profonda crisi, finisce che nelle liste da controllare ci finiscono anche i controllori.
Questo consente ai politici più forti, anche economicamente, che notoriamente sono uomini, di fare non un solo ticket, ma di farne più di uno, magari uno a Cagliari, uno a Quartu, uno in provincia e così via, andando incontro ad una campagna elettorale più onerosa ma fruttuosa.
Pensiamo che i comuni delle circoscrizioni elettorali sono tantissimi (Cagliari ne conta 71) e se questo “giochino” viene ripetuto più volte questo consente al big di turno di fare leva sul pacchetto di voti personali delle diverse candidate (che si aggiungono a quelli propri già numerosi), garantiti nella peggiore delle ipotesi da amici, familiari, conoscenti. Anche se pochini, sempre utili da portare in cascina.
In sintesi, con questo scambio di “favori”, candidato e candidata possono pescare qualche consenso in più grazie al ticket; lui però, poligamo, pesca voti in tutta la circoscrizione lei, monogama, solamente nel suo comune. Lui probabilmente viene eletto, lei avrà portato solo acqua.
Ecco che la doppia preferenza di genere ha di fatto aperto la strada a quello che potrebbe definirsi come l’harem del capo corrente o il gineceo dell’onorevole, fate un po’ voi. Un passo indietro gigantesco rispetto alla condizione auspicata di pari opportunità in politica che ci proietta in un medio evo del diritto all’emancipazione.
Sarà certamente necessario qualche correttivo alla norma, ma soprattutto serve una presa di coscienza delle organizzazioni politiche, degli elettori e direi anche delle donne che dovranno imparare a porre delle rigide condizioni alle loro candidature.
Ad oggi la politica che pesa rimane un luogo ostico, alterato da ambizioni, cinismo, stratagemmi e prevaricazione.
Siamo onesti, cosa hanno a che fare le donne con tutto questo?
Diciamocelo, per ora praticamente niente.