Il disoccupato e il Coronavirus

A cura di Franco Dalmonte

Le cose che ho scritto sul problema della disoccupazione, nel primo semestre del 2020, erano il frutto di considerazioni nate prima che scoppiasse l’epidemia del Coronavirus, quando nessuno conosceva né poteva prevedere le conseguenze e gli effetti che ne sarebbero derivati, sia sotto l’aspetto sanitario che sotto l’aspetto economico e sociale. Pare evidente che per quanto riguarda l’aspetto sanitario tutto si risolverà con l’arrivo del vaccino (su cui stanno lavorando alacremente diversi centri di ricerca), mentre non altrettanto chiare sono le conseguenze che ne deriveranno sul piano dell’economia e dei livelli occupazionali (che è la cosa di cui ci stiamo occupando). Possiamo sforzarci di analizzare i vari aspetti di questa vicenda, le conseguenze già in atto e quelle facilmente prevedibili.

Primo: è mia impressione che le decisioni assunte dal Governo e/o dalle Amministrazioni Regionali e Comunali, siano dettate dalla convinzione che fosse più importante -meglio dire essenziale- preoccuparsi dell’aspetto sanitario, in base alla banale e semplice osservazione che se uno è ammalato non può fare nulla, tanto meno lavorare. Perciò, prima di tutto, ci si deve preoccupare di salvaguardare la salute di tutti e siccome non si ha fiducia nel senso di responsabilità dei cittadini è necessario imporre il rispetto di alcune regole quali l’uso di mascherine, il distanziamento fisico (qualcuno può spiegarmi perché viene chiamato distanziamento SOCIALE?), imponendo l’interruzione di alcune attività lavorative, la chiusura di bar, ristoranti e così via. Il tutto accompagnato da minacce di multe e sanzioni economiche e da un bombardamento mediatico ininterrotto e assillante (nei telegiornali non si parla d’altro).

Secondo: siccome non è detto che le cose banali e verosimili siano anche vere, io mi permetto di dissentire. Non sono infatti convinto che il problema più importante sia quello sanitario, quasi che una volta sconfitto il virus non esisterà più alcun problema e, come nelle favole, vivremo tutti felici e contenti. So di andare contro-corrente e di rischiare il linciaggio ma, essendo convinto del contrario, mi sforzerò di dimostrarne la validità. Penso infatti che si sarebbe dovuta dedicare la massima attenzione all’aspetto economico e occupazionale, perché la salute dei cittadini è una conseguenza della ricchezza e del benessere di una nazione. Le nazioni più povere e con minore sviluppo economico, sono quelle dove le malattie e le pestilenze si diffondono con maggiore facilità, perché non dispongono dei mezzi economici per garantire le cure necessarie e non possono permettersi le medicine, le sale operatorie e tutte le sofisticate e costose apparecchiature sanitarie di cui dispongono le nazioni più ricche e più progredite.

 

 

Terzo: chiamo in mio soccorso l’Art. 1 della nostra Costituzione, di cui andiamo fieri, scritta da persone di grande saggezza e cultura, alcuni dei quali ho avuto la fortuna di conoscere (vantaggi della vecchiaia!). Ebbene, l’Art. 1 afferma che l’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro (NON sulla salute, come piacerebbe a qualcuno). Ciò non significa che la salute sia da trascurare ma essa deve essere curata mentre si vive e si lavora, come abbiamo sempre fatto. Chiediamoci, infatti, cosa succedeva e come ci comportavamo prima che scoppiasse la pandemia? Pensavamo innanzi tutto a lavorare e a vivere, sbrigando le faccende quotidiane e affrontando un’eventuale malattia come una fastidiosa interruzione alla nostra quotidianità. Solo durante la malattia diventava preminente pensare a guarire per poter riprendere le nostre normali occupazioni e nessuno evitava di vivere e lavorare per evitare di ammalarsi. Ognuno si sforzava di prendere tutte le possibili precauzioni: per evitare incidenti, raffreddori, intossicazioni, danni da fumo, ma questo avveniva continuando a vivere e a dedicarci alle normali occupazioni quotidiane. La malattia era considerata una sospensione temporanea del vivere quotidiano che ci sforzavamo di far durare il meno possibile.

Quarto: anche in questo periodo di piena pandemia, le farmacie, gli ospedali, i trasportatori, i ferrovieri, i supermarket, le macellerie, le pizzerie, i giornalai .. (e potrei continuare ancora a lungo) hanno sempre continuato a lavorare! E se hanno lavorato loro, significa che potevano continuare a lavorare tutti, assumendo ognuno le necessarie e opportune precauzioni. Né mi risulta che i contagi che continuano a verificarsi colpiscano in modo particolare le persone che operano nei settori che ho citato e che hanno continuato a lavorare senza interruzioni. Il punto è che non dobbiamo smettere di vivere e di lavorare per non correre il rischio di ammalarci.

Il lock down (a parte la fase iniziale durante la quale si è familiarizzato col virus e si è imparato a combatterlo e guarirlo) poteva perciò durare il meno possibile. Averlo imposto e continuare ancora oggi a imporlo -senza tener conto dei danni economici arrecati, in particolare, alle categorie non protette- può essere stata una scelta sbagliata e saranno i fatti futuri a chiarire se questa affermazione e vera o falsa. Durante i prossimi mesi avremo modo di valutare le conseguenze sull’economia e sul numero dei disoccupati derivanti dalle misure assunte da chi ci governa: solo allora potremo esprimere i giudizi più appropriati su quello che è successo e che continua a succedere nel nostro paese.

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