La metamorfosi come chiave dell’esistenza umana
di Giancarlo Pillitu
Il senso dell’esistenza umana risiede nella conoscenza di sé (dall’oracolo di Delfi a Socrate, sino a noi). E la conoscenza di sé può esplicarsi nella metamorfosi (magistrale, a tal proposito, l’insegnamento di Ovidio). Una tradizione che risale all’antichità greca e latina, ma che trova riscontri anche nel mondo contemporaneo (basti pensare a Kafka). I sogni spesso sono la fonte della rivelazione che conduce alla consapevolezza di sé (tale idea viene esplicitata compiutamente nell’opera di Freud). Tuttavia, siffatta tradizione mette in questione il concetto consolidato di identità, che si riferisce ad un’identità monolitica. A questa critica la tradizione letteraria e filosofica connette, in positivo, un concetto alternativo, più complesso e articolato di identità.
Si può provare a mettere a confronto i due tipi di soggettività. Ma è meglio fare una precisazione preliminare: è preferibile impiegare la nozione di soggettività piuttosto che quella di identità, perché la prima ha un carattere più originario e radicale. Infatti, l’identità in senso stretto rappresenta solo una modalità della soggettività. La prima modalità è quella più elementare e artificiale, ovvero l’identità monolitica, fondata sul principio di identità (per cui una cosa è uguale a se stessa) e di non contraddizione (per cui una cosa non può essere e non essere uguale a se stessa).
Ma vi è anche un’identità polimorfica, che deriva dall’unità dei contrari, ovvero un’identità dialettica, di tipo eracliteo. La soggettività identitaria è stabile, conosciuta, sempre uguale a se stessa, rassicurante, modellata sull’essere parmenideo e sul cogito cartesiano, da difendere e tutelare secondo una logica immunitaria (Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2002). La soggettività polimorfica, al contrario, è cangiante, priva di un fondamento stabile, di incerta origine, scissa da una tradizione nobile e rassicurante, fondata sull’inconscio e sul sogno. Ciò spiega il fallimento di aspettative, programmi e progetti e la rivelazione di nuovi e inaspettati orizzonti di senso.
Si può ritrovare tale contrapposizione, trattata in chiave narrativa, nel godibile romanzo di Bianca Pitzorno (Sassari, 1942), intitolato La vita sessuale dei nostri antenati. Spiegata a mia cugina Lauretta che vuol credersi nata per partenogenesi (Mondadori, Milano 2015). In quest’opera ritroviamo una narrazione “liquida”, che veicola l’incompiutezza e richiede la necessaria collaborazione del lettore, che è implicitamente invitato a interpretare e completare quanto narrato (cfr. U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979; Id., Opera aperta, Bompiani, Milano 1962).
La domanda sottotraccia è quella di sempre: ”chi sono?”, ovvero si pone ancora una volta e senza fine il problema dell’identità, nostra o altrui. Ma le risposte suscitate dal motto delfico “Conosci te stesso” sono varie. In particolare, nel romanzo di Bianca Pitzorno si possono distinguere almeno tre fonti delle possibili risposte: la tradizione (Lauretta); la ricerca (Cecilia); il sogno (Ada).
Resta il fatto che la metamorfosi domina la nozione di identità che si snoda nell’articolata narrazione, tanto che può accadere che una progenitrice ricordata come moglie e madre possa rivelarsi omosessuale e adultera. Addirittura anche l’identità dell’impeccabile zio Tan può essere revocata in dubbio: uomo (Tancredi) o donna (Clorinda)? O entrambe le cose? Le dichiarazioni di Armellina, in punto di morte, sebbene in stato di delirio, giustificano un dubbio che fa rabbrividire.
La vera realtà è la sorpresa continua, la metamorfosi imprevedibile, il divenire incessante, la cui spiegazione coincide paradossalmente con l’enigma del sogno. Nessuna identità è mai certa, nessuna rendita di posizione può darci la sicurezza, perché la stabilità del fondamento è un’illusione, la falsa speranza dei privilegiati.
La logica e la dialettica della metamorfosi hanno il pregio di consentire l’identificazione con i molteplici aspetti della realtà, permettendo un accesso pieno e totale all’essere. Nulla è come sembra. “Sei quella che non sai. All’origine è l’amore” (Op. cit., p. 247). D’altra parte, l’amore è l’altra faccia della metamorfosi, ovvero coincide con l’unità dei contrari.
Anche il film “Eliza Graves” (2014) di Brad Anderson mette in scena una metamorfosi che, invertendo i ruoli tra folli e personale medico-sanitario, giunge a dissolvere il confine tra normalità e follia, il quale perde del tutto il suo senso iniziale, che fa capo ad una concezione positivistica di fine Ottocento.
Vi è anche un altro aspetto della problematica dell’identità che trova spazio nel romanzo di Bianca Pitzorno: il complesso della vittima. Ci si può sentire vittime di un’ingiustizia cosmica, o di una giustizia cosmica (il che, in ultima analisi, cambia poco per le sorti del singolo individuo), seguendo l’intuizione di Anassimandro, filosofo ionico vissuto tra il VII e il VI secolo a.C. La causa di tale complesso risiede nel sentire e considerare l’io come baricentro del mondo. L’egologia diventa la causa dell’autopersecuzione. Come si può allora uscire dall’egologia? Forse, attraverso la conquista dell’impersonalità o l’identificazione con l’essere, la natura, la realtà di cui rappresentiamo un infinitesimo di coscienza. D’altra parte, siamo delle monadi. L’alternativa sarebbe vivere la nostra condizione umana in tutta la sua finitezza, incompletezza, frammentarietà. Infatti, viviamo al confine, come dietro una porta atraverso la quale origliamo, in attesa di qualche segno che possa orientarci. Siamo creature di confine, prigioniere della dimensione egologica, ma nello stesso tempo irriducibili al solo ego. L’altro è la nostra epifania (“Je est un autre”, “Io è un altro”, come sostiene il poeta maledetto Arthur Rimbaud nella cosiddetta lettera “del Veggente”, 1871), la nostra bussola, l’al di là del confine, l’essere oltre la porta dell’ego. Siamo la traccia di un’inquietudine, caratterizzata dalla manifestazione e dal dissolvimento dell’egologia e del conseguente complesso della vittima.
Vulcano n° 97