Villaspeciosa, reportage dal Burundi

La bellissima esperienza di Maria Grazia Addari, infermiera speciosese, che ha partecipato come volontaria a due missioni in Burundi tra il 2004 e il 2009
di Giuliana Mallei
 
Ognuno di noi racchiude in sé un Universo e rende pubblica solo una piccola parte di esso, il resto rimane sconosciuto ai più e rappresenta il nostro tesoro più prezioso. Fortunatamente esistono persone, e sono tantissime, che mantengono un atteggiamento umile, riservato e silenzioso. Siamo onorati di raccontare ai lettori di Vulcano la storia di una persona che, nella sua semplicità e riservatezza, ha fatto un’esperienza meravigliosa. Da alcuni anni l’abbiamo “corteggiata” affinché ci raccontasse la sua bellissima esperienza, ma ogni volta era restia a rendere pubblico il suo operato. Stavolta l’abbiamo convinta e ci ha aperto il suo Universo, lasciandoci stupefatti, ammirati e orgogliosi di essere suoi compaesani.

Maria Grazia Addari da anni ha lasciato Villaspeciosa ed esercita, da diverso tempo, la professione di infermiera in un ospedale del nord Italia.

Medici e infermieri in  BurundiCome hai preso la decisione di fare un’esperienza nel mondo del volontariato internazionale?
Sono infermiera da circa 17 anni e, lavorando fuori dall’isola, ho fatto diverse esperienze: ho lavorato presso case di riposo per anziani, servizio in reparti pediatrici ospedalieri, attualmente lavoro in area medica. Il desiderio di partire per i paesi in via di sviluppo è sempre stato nella mia testa e nel mio cuore, ma vedevo la cosa non alla mia portata. Ho sempre seguito con interesse le storie che venivano dai paesi meno fortunati del nostro, ad un certo punto ho capito che se mai avessi provato a saperne di più, mai avrei saputo se potevo farcela a dare il mio contributo.

Come hai iniziato?
Nel 2003 sono riuscita ad iscrivermi ed un corso di preparazione in Medicina Tropicale organizzato dell’Università di Brescia. E’ stato faticoso conciliare il corso con il lavoro. Dal lunedì al venerdì seguivo le lezioni dalle 9,00 alle 16,00, il venerdì e il sabato (o il sabato e la domenica) dovevo fare il turno di notte in ospedale. Ma, nonostante i grossi sacrifici, più il corso andava avanti più mi convincevo che volevo e dovevo sperimentarmi fino in fondo.

Chi frequentava il corso con te?
I corsisti venivano da tutta Italia e alcuni provenivano da paesi del Terzo Mondo. Tra gli iscritti vi erano due medici dell’Equador, un medico del Burkina Faso e un’ostetrica del Senegal. Alcune lezioni ci sono state impartite dai Medici Senza Frontiere e dai Medici di Africa CUAMM (che sono meno conosciuti, ma operano da circa 60 anni nelle zone in cui c’è più bisogno). Mentre per la parte relativa alla prevenzione, diagnosi e cura della Tubercolosi, le lezioni sono state impartite dai medici dell’OMS di Ginevra. Questo corso fa parte di un Master in Medicina Tropicale e Salute Internazionale, gli insegnanti sono medici con non meno di 4 anni di esperienza in Africa.

Quando hai preso accordi per partire?
Il corso è durato tre mesi, durante i quali i Medici Senza Frontiere hanno dedicato un giorno ai colloqui con i corsisti. Mi hanno invitata a ristudiare il Francese (lo avevo studiato alle superiori) perché faticavano a trovare volontari che parlassero francese. Rimasi d’accordo con loro che mi sarei presentata a Roma per le pratiche di arruolamento e per sostenere il colloquio in lingua francese con un esperto. Perciò mi inserirono nelle loro liste. A dicembre 2004 mi chiamarono per la partenza: destinazione Katanga nella Repubblica Democratica del Congo, per lavorare in un centro nutrizionale.

Dopo quanto tempo sei partita?
Purtroppo non sono partita in quella occasione. Feci tutte le vaccinazioni necessarie, ma lo tzunami nell’Oceano indiano ha sconvolto i piani di tutti. Infatti i MSF furono costretti a dirottare le loro risorse in quell’area devastata e, poiché là si doveva agire velocemente, non inviarono volontari alla prima esperienza. Ti confesso che ci rimasi malissimo.

Ma comunque non ti sei data per vinta, giusto?
Nel modo più assoluto! Parlai con un’amica che aveva fatto il corso con me e che mi indicò un’associazione con sede vicino a Malpensa: il VISPE, fondata da don Cesare Volontè, che opera in Burundi. Mi si è aperto un mondo!

Parlaci del VISPE, quale progetto porta avanti e da quanto tempo?
VISPE significa Volontari Italiani Solidarietà Paesi Emergenti, è un’associazione creata da don Cesare Volontè, sacerdote della Bassa Milanese che, nel dopo guerra, lavorava con i contadini lombardi. Con l’arrivo del benessere in Lombardia, pensò di portare soccorso in zone bisognose e, agli inizi degli anni ’70, con il contributo di alcuni volontari, ha portato avanti l’ambizioso progetto di portare l’acqua il più possibile vicino ai centri abitati in Africa. Ha così potuto realizzare un progetto agricolo in Burundi che ha chiamato “modello Mutoyi”. Pian piano è nato un modello di sviluppo rurale che ha dato lavoro a circa 1000 persone in modo diretto e indiretto, inoltre poco dopo è stata creata una coop di acquisto dei prodotti coltivati dalla gente. Un lavoro grandioso nella sua semplicità, invito tutti a visitare il sito dell’associazione VISPE, sarà più semplice rendersi conto del suo operato, infatti si occupa di volontariato in Africa a tutto tondo: dalla sanità, all’agricoltura, alla scuola ecc.

Decidesti di incontrare don Cesare?
Certamente. Andai con la mia amica. Ci accolse con affetto, parlammo a lungo, ci spiegò quali erano i compiti della missione e ci elencò tutte le difficoltà che avremmo potuto incontrare. Disse che in Burundi vi erano ancora circa mille ribelli che al momento seminavano il caos facendo esplodere granate, innescando conflitti a fuoco ecc. Disse che prima di arrivare ad una strada asfaltata si dovevano percorrere anche 40 minuti di pista in sterrato pieno di buche e che il telefono più vicino si trovava a 50 km di strada sterrata (2 ore di macchina per percorrerlo).

Ti spaventò questa cruda descrizione?
Un po’ si, ma il desiderio di misurarmi col mio sogno era troppo grande. Don Cesare mi disse che se fossi partita, ma non mi fossi trovata bene, sarei potuta rientrare anche solo dopo 15 giorni. Partii con l’intenzione di rimanere laggiù 6 mesi, ma vi rimasi 8 mesi.

Descrivici il tuo arrivo e il primo impatto che ricevesti in una realtà totalmente diversa dalla nostra.
L’arrivo a Bujumbura è stato emozionante e da paura allo stesso tempo. La lunga strada che portava dall’aeroporto al centro mi faceva vedere un panorama verdissimo, essendo zona tropicale piove per due stagioni ed il verde la fa da padrone. Un fiume di persone a piedi o in bicicletta con i vestiti coloratissimi contrastavano con il verde; portavano carichi sulla testa che pesavano almeno il doppio del loro peso corporeo, c’era chi aveva la bici altrettanto carica, tanto che spesso si vedevano persone spingerle a mano. Tutto questo spettacolo faceva da contrasto con centinaia di camionette della polizia locale e con le jeep dei Caschi Blu che presidiavano ogni angolo della città, la guerra era finita ma si viveva in uno stato di totale insicurezza…Don Cesare mi aveva avvisata. Vedevo che Gilberto (volontario che era venuto a prenderci) andava veloce e ci spiegò che era in corso la prima giornata delle elezioni. Ci fermammo poi da Sorella Giulia e Sorella Maria che vivevano, e vivono, nella capitale e gestiscono assieme ai neri un negozio nel quale si vendono anche i prodotti che la gente coltiva a Mutoyi. Sostammo per telefonare in Italia, il tempo di un caffè e ci costrinsero a partire immediatamente, raccomandandoci di andarcene velocemente perché avevano sentito sparare per buona parte della notte in zona aeroporto e a Kamenge, strada per noi obbligata (Kamenge è la zona in cui hanno ucciso le tre suore italiane lo scorso anno). L’inizio non è stato dei migliori, avevo capito di dover vivere in uno stato di pericolo. Si osservavano le misure di sicurezza, alle sei di sera dovevamo stare tutti a Mutoyi e se si andava alla capitale a fare qualcosa, alle 16,00 scattava il coprifuoco, non usciva e non entrava più nessuna macchina. L’arrivo nella campagna è stato ancora più emozionante, mi colpiva la gente che camminava, camminava, camminava con pesi in testa paurosi, sacconi pieni di patate, fasci di legna enormi e le donne col bambino legato dietro la schiena. Mi è capitato di vedere anche uomini col bambino legato nella schiena.

Come è stato l’impatto con il tuo lavoro?
Nel pomeriggio del mio arrivo feci la prima visita in ospedale e la mattina seguente ero già operativa in astanteria; successivamente mi spostarono dove c’era più bisogno. Faticavo a credere di non essere in un film, il dispensario era una marea umana, in media 1800/2000 persone da visitare. Le due suore mi spiegarono che alcuni morivano facendo la fila e quindi avevano organizzato una sorta di triage: cinque o sei persone misuravano la febbre a tutti, la scrivevano nel palmo della mano e venivano accompagnate da noi in astanteria e sistemate o in una barella o in una stuoia, visitati velocemente, fatto il test rapido della malaria (simile al test di gravidanza ma fatto su sangue) ed iniziavano la cura. Molti erano malnutriti, anemici anche per carenze nutrizionali; tanti erano stati morsi dai serpenti, altri avevano dissenteria ecc. Quando i responsabili hanno capito come ero fatta mi hanno chiesto se potevo mettere mano al magazzino e fare un po’ di ordine per capire cosa era rimasto (erano dieci anni che non avevano infermieri bianchi). Ho riordinato, pulito, trovato materiale donato da Caritas, Unicef e chirurghi Italiani che erano passati di lì. 
Sono poi stata un periodo in pediatria, reparto abbastanza doloroso, su cinquanta posti letto ogni mattina quando arrivavo vi erano almeno uno o due morti per cause che in Italia avremmo potuto salvare; si moriva per dissenteria o attacchi di malaria. La gente portava e porta tardi in dispensario ed in ospedale l’ammalato perché in Africa la sanità costa molto cara, si paga tutto e si devono portare da casa lenzuola e cibo. L’ospedale di Mutoyi, grazie all’aiuto del VISPE e del gruppo di suore che lavorano in Italia riescono a supportare l’acquisto di medicinali e parte della manutenzione ospedaliera, dona ai malati le cure non totalmente gratuite (anche per un fatto educativo) ma fanno pagare un forfettario giornaliero che comprende le lenzuola ed i pasti. I più poveri pagano con la legna che serve ad alimentare le stufe per le cucine, oppure i parenti dei ricoverati lavorano un tot di giorni nei campi della parrocchia, che vengono coltivati per il cibo degli ammalati. Sorella Luisa in una parte dell’ospedale allevava anche uno o due maiali che poi faceva uccidere e cucinare durante le feste per i suoi malati.
Ho scoperto che molti bambini non esistono all’anagrafe perché per registrarli si aspetta che compiano i cinque anni,in quanto moltissimi muoiono entro il quinto anno di vita .Registrarli all’anagrafe costa e spesso i genitori non hanno i soldi per registrarli. Ogni giorno era una scoperta. Lungo la strada che facevo a piedi per andare in ospedale incontravo moltissimi bambini con le loro taniche di acqua, infatti potare l’acqua a casa è un compito affidato ai bambini, un modo per partecipare alla vita quotidiana. La scuola era lungo la mia strada, ebbi modo di vedere alle otto circa una marea di bambini, accompagnati dalle maestre, armati di zappe piccoline che si avviavano verso il fiume Ruvubu (fiume degli ippopotami). Si impara a zappare già da piccoli, altrimenti non mangi, la zappa è quella consumata dagli adulti che non viene buttata ma tenuta per essere riutilizzata dai piccoli. Una scuola di vita e per la vita.

Questa però non è stata la tua unica missione, giusto?
Giusto. Sono stata in Burundi per la prima volta dal giugno del 2005 alla fine di gennaio del 2006, poi sono tornata per un periodo più lungo, ho trascorso là tutto il 2008 fino al marzo 2009.

Dove hai alloggiato in tutto questo tempo?
Ero ospite della missione delle sorelle “Piccole Apostole di Gesù”, che dalla fine degli anni ’60 seguono il progetto di don Cesare. Stavamo in casette dignitose col tetto in lamiera, mangiavamo i prodotti della terra coltivati dalle suore, ma anche polli e conigli, sempre allevati da loro. Al rientro dall’ospedale trovavamo il pranzo pronto, ma spesso cucinavamo noi volontari.

Durante le due missioni i tuoi compiti sono stati differenti?
Durante la prima missione facevo un po’ di tutto, ma sempre facevo l’infermiera. La seconda volta invece ho lavorato più a lungo nel reparto chirurgia, mi occupavo sia dei malati sia dell’organizzazione del lavoro. Mi occupavo anche di smistare il materiale utile che arrivava da Milano nei container. Era comunque necessario dare l’esempio ai giovani locali, perciò non mi esimevo dall’assistere i malati nella pulizia, pulire la camere e lavare le toilette e i pavimenti. Devo dire che dare l’esempio funziona! E’ vero però che il concetto di pulizia e igiene cambia rispetto a casa nostra. Per gli africani non è possibile pulire e lavare così spesso come facciamo noi, l’acqua la si deve prendere in recipienti e trasportare a piedi per km, diventa massacrante.

I bambini e i ragazzi del BurundiCosa ti ha colpito di più della missione in generale?
Mi ha colpita l’intuizione di don Cesare che, 40 anni fa, ha concepito un luogo di cooperazione e di sviluppo. Ha messo in piedi un sistema aperto con tante coop che realmente migliorano la qualità della vita delle gente. Attività di microcredito che funzionano concretamente, basti pensare al semenzaio dove la gente va e compra, o prende a credito, le piantine della verdura, le coltiva e poi rivende alla coop, saldando così il debito e creandosi un reddito che permette loro l’acquisto del sale (carissimo), i quaderni per i figli, i libri, i farmaci ecc. Anche l’allevamento dei polli crea reddito. La gente compra o prende a credito i pulcini, li alleva e li vende al macello.

Cosa ti ha colpita di più della gente locale?
Della gente locale mi ha colpita tantissimo la voglia di vivere e l’allegria, nonostante i numerosi problemi; la loro capacità di accettare la vita come arriva, il loro rapporto naturale con la nascita e con la morte. Quest’ultima è un evento nella vita come la nascita, anche se molto dolorosa. Alla terza settimana dopo la dipartita di una persona cara, ci si riunisce e si fa una sorta di festa.

Hai avuto problemi con la lingua?
Molti burundesi non parlano francese, ma parlano solo la lingua locale il kirundi. Nel giro di poco tempo ho imparato le parole fondamentali per poter accogliere i malati, salutarli, dir loro di sedersi o sdraiarsi, chiedere il loro nome, dove avevano dolore ecc. Ma loro sono un po’ come noi italiani: gesticolano molto e sono espressivi, ci siamo capiti senza grosse difficoltà.

Torniamo all’ospedale, potresti descrivercelo in breve?
L’ospedale di Mutoyi è sorto dall’apertura di un piccolo ambulatorio per curare le piaghe tropicali nei primi anni ’70, ora conta 300 posti letto con tasso di occupazione del 130% ; i pazienti non vengono rifiutati, ma sistemati in brande e stuoie, quando le brande finiscono. I sevizi sono: chirurgia, medicina, pediatria e maternità, con 100 posti letto. Il funzionamento della maternità è eccezionale, c’è anche la neonatologia, con alcune incubatrici donate da vari progetti attivati spontaneamente da medici ed infermieri che sono andati in visita. Naturalmente il dispensario non ha mai smesso di funzionare e in pratica fa le funzioni di medico di base, pronto soccorso e farmacia, oltre a dispensare farmaci. Esiste anche il servizio di radiologia. Attualmente il medico italiano che è laggiù si chiama Paola Caravaggi ed è li dal 2005. Il primo viaggio lo feci con lei ed il marito, che hanno scelto di fare i volontari a vita, la dottoressa Caravaggi è una ginecologa con pluriennale esperienza in Africa. A Mutoyi però non mancano mai i medici locali che sono obbligati dal governo ad uno stage post laurea di due anni negli ospedali rurali, e Mutoyi è veramente rurale.

C’è una persona che hai incontrato e che ti ha colpita in modo particolare?
Si, un medico locale: Tierry Mako (Mako significa dono), un ragazzo che ha perso entrambi i genitori nei fatti dei primi anni ’90 riguardanti i genocidi, lui si è salvato nascondendosi sotto i cadaveri. Tutti parlano del Ruanda, ma anche in Burundi c’è stata una grande carneficina. I preti e le suore mi raccontavano che andavano a spingere i cadaveri con lunghi bastoni lungo il corso del fiume, perché in alcuni punti rimanevano girando per giorni sempre nello stesso punto.
Tierry mi è rimasto nel cuore, non mangiava mai a pranzo perché aveva anche le consulenze, oltre al reparto, una media di 60/70 persone al giorno tra le più gravi (scelte dagli infermieri, i meno gravi erano curati dagli infermieri stessi), voleva terminarle tutte entro le 16,30 perché altrimenti la gente camminava col buio, alle 18 è praticamente notte, il Burundi è nell’Equatore: la giornata è equamente divisa in 12 ore di giorno e 12 ore di notte.

Dal tuo racconto appassionato emerge una grande nostalgia e una intensa felicità nel riferire quanto hai vissuto. In un prossimo futuro ripeterai l’esperienza?
Non ho fatto nulla di eccezionale, se non vivere in una missione a contatto con infermieri, medici e soprattutto la gente: è stato uno dei periodi migliori della mia vita. La nostalgia è fortissima, ma ora le contingenze mi impediscono di ripartire. Però come dici tu, in un prossimo futuro sarò felicissima di ripartire.

Ringraziamo sentitamente Maria Grazia per aver consentito la pubblicazione di questa intervista e la ringraziamo ancora di più per il suo coraggio, la sua prontezza di spirito e la sua generosità nel mettersi a disposizione del prossimo.

Vulcano n° 83

 

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