Il randagismo, un problema ancora da risolvere

Canili affollati, spese degli Enti alle stelle e aumento degli abbandoni impongono un cambio di rotta

di Alberto Nioi

Ci sono molte ragioni per essere orgogliosi di vivere in Italia ed una di queste è senz’altro la nostra sensibilità verso i temi etici e i diritti delle persone come degli animali. Spesso, non sempre in verità, questa grande attenzione dell’opinione pubblica si è tradotta in una corposa legislazione che ci pone all’avanguardia rispetto ad altre nazioni.

Tra questi temi uno spazio importante è occupato dall’attenzione verso la tutela degli animali, soprattutto dei cosiddetti animali d’affezione, cani e gatti in primis, a cui si aggiungono ormai da anni, anche conigli, uccellini, pesci, rettili, criceti e tanti altri piccoli mammiferi. Si conta che siano circa 60 milioni i “pet” nel nostro paese, di cui 20/30 milioni i cani (dati Legambiente): solo un terzo di questi è regolarmente microchippato e registrato presso le anagrafi canine regionali. Ma come vedremo in seguito, questa attenzione al benessere degli animali da compagnia ha però un suo rovescio della medaglia, una grave contraddizione, conseguenza di un approccio che negli anni si è dimostrato parziale e i cui effetti cominciano a pesare anche sul piano economico e sociale.

Torniamo agli aspetti positivi di cui parlavamo prima e del perché l’Italia si ponga all’avanguardia rispetto al resto dell’Europa parlando di cani. E’ difficile crederlo forse perché oramai abbiamo tutti preso consapevolezza che da noi la soppressione dei cani randagi sani non sia consentita, ma nel nostro civilissimo continente siamo praticamente i soli a vietarne l’eutanasia (eccezion fatta per la Grecia dove però i cani vagano liberi, per cui più che tutelati sembrerebbero ignorati). In Inghilterra, dove si registra un massiccio abbandono di cani di piccola taglia, il cane che entra in canile, dopo 7 giorni di permanenza senza che nessuno ne riconosca la proprietà o ne decida l’adozione viene soppresso. Anche in Francia è prevista l’eutanasia, stessa cosa in Spagna dove vengono soppressi 30.000 cani l’anno; in Ucraina bastano 3 giorni, con possibilità di adozione praticamente nulle. In Romania la permanenza nelle strutture pubbliche non deve superare i 14 giorni, superati i quali il destino dei randagi è il medesimo. E in Germania? Qui esiste una norma seria che obbliga i detentori di cani mordaci a superare un esame per il conseguimento di un patentino, il che lascerebbe sperare in un approccio verso il problema randagismo meno crudele. Invece la permanenza in canile dei cani abbandonati, anche se molto più lunga (arriva a sei mesi), si conclude sempre con l’eutanasia.  Non parliamo poi dell’America dove 6/8 milioni di cani sono ricoverati in 5000 canili e dove ogni anno 4 milioni di animali vengono sistematicamente soppressi in camere a gas.

Il Italia dal 1991, con l’emanazione della legge quadro in materia di animali d’affezione e prevenzione del randagismo, la legge n.281, è vietato sopprimere i cani se non per gravi problemi sanitari, perché incurabili o molto pericolosi. Sotto questo aspetto come dicevo c’è da essere orgogliosi di essere italiani e di vivere in paese civile come il nostro. L’idea che si possano sopprimere esseri senzienti, intelligenti ed emotivi che già vivono il trauma dell’abbandono è qualcosa che scuote le coscienze, una soluzione inaccettabile sul piano etico e morale. C’è da dire che purtroppo l’emanazione di questa norma, che ha rappresentato un grosso passo in avanti in tema di protezione degli animali, ha portato per contro un incremento del fenomeno del randagismo, in misura maggiore al sud rispetto al nord Italia ma comunque più o meno diffuso in tutta la penisola. Un problema serio che incide pesantemente sui bilanci comunali e regionali con stanziamenti di ingenti risorse che in epoca di crisi come quella attuale in molti fanno fatica ad accettare. Ne sanno qualcosa gli uffici dei servizi sociali dei comuni che non possono erogare assistenza nella misura che richiederebbe l’utenza proprio per mancanza di risorse. Solo in Sardegna la spesa annua destinata alla gestione delle strutture di ricovero per il mantenimento dei cani è pari a 8 milioni di euro, una cifra in costante aumento perché cresce costantemente il numero dei cani abbandonati.

Ecco il rovescio della medaglia nella civile Italia: per sensibilità abbiamo bandito l’eutanasia dei cani randagi però ne abbiamo abbandonati circa un milione che vagano per i territori, la gran parte destinata a morire di stenti o per cause accidentali entro poche settimane. E’ evidente che bisogna intervenire subito con misure concrete, anche straordinarie, incominciando da una revisione della normativa che a distanza di molti anni si è dimostrata per certi versi inefficace ad affrontare in maniera organica il complesso fenomeno del randagismo. Se noi pensiamo solo ai problemi che vivono i cani, chiusi anche per lungo tempo in strutture spesso sottodimensionate, inadeguate alle loro esigenze fisiologiche ed etologiche, con personale ridotto all’osso, che perdono ogni capacità di relazionarsi con l’uomo finendo per diventare inadatti all’adozione, siamo in grado di comprendere in quale situazione di emergenza ci troviamo. Noi questo genere di canili, e sono quasi tutti così, non li svuoteremo mai.

La prevenzione del randagismo e la gestione successiva dei cani detenuti in strutture di ricovero non sono un unico problema, rappresentano in realtà una moltitudine di problemi che richiedono interventi multidisciplinari, norme nuove, educazione e informazione a tutti i livelli, figure professionali appositamente formate, competenza e una certa solidità imprenditoriale di chi i canili li gestisce. E’ indispensabile educare soprattutto le persone, informarle adeguatamente sulle responsabilità che comporta prendersi cura di un cane, introdurre disincentivi al mantenimento di cani fertili (in sostanza un contributo speciale annuo per chi detiene animali in grado di riprodursi), riformare l’anagrafe canina.

Il cane non è un animale come tanti è molto di più: a lui non interessa il vostro bel giardino e i giocattoli che gli comprate, a lui interessa il vostro tempo, la vostra disponibilità a stare con lui, a giocare ed esplorare il mondo insieme. Ecco perché un cane che entra in canile ha immediato bisogno di recuperare un suo equilibrio. Spesso ha bisogno di essere aiutato a fidarsi ancora dell’uomo, a relazionarsi di nuovo con lui e i suoi consimili. Senza adeguati percorsi educativi/riabilitativi gran parte dei cani ricoverati, sicuramente problematici, non possono essere affidati in adozione.

In quanti canili esiste la figura dell’educatore? Quali canili possono vantare la presenza di personale che si occupi del benessere animale? La funzione dei canili come la conosciamo dovrà necessariamente cambiare, perché così come sono stati previsti dalle norme vigenti non possono funzionare. E poi, diciamolo, non si può pensare di scaricare unicamente su queste strutture la complessa gestione dell’intera problematica rappresentata per sintesi col termine di randagismo. Fortunatamente almeno su questo punto qualcosa si muove, anche grazie ad interessanti esperienze che stanno facendo da modello, come quella del Parco Canile di Milano e di Rovereto, diventate punto di riferimento per quei territori e le loro comunità, ma anche per gli addetti lavori, enti pubblici ed associazioni protezioniste.

Ad Uta da pochi mesi funziona una struttura che si ispira proprio a questi nuovi standard di qualità, ad una nuova concezione di canile, ed è per tutti una bella notizia. Questo genere di canili hanno completamente rivista la loro funzione sociale e da vuoti spazi di ricovero, tappe conclusive dell’esistenza del randagio, aspirano a diventare per le persone punti d’incontro, formazione e relazione; per i cani luoghi di passaggio, di crescita, riabilitazione e recupero di ciò che per loro rappresenta l’unica ragione di vita: il rapporto di coesistenza e dipendenza dall’uomo, che l’evoluzione genetica di migliaia di anni ha scritto nel loro DNA e di cui non possono fare a meno.

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