Covid-19 e smartworking: le disuguaglianze di genere ai tempi del Coronavirus

Dal Vulcano 104. Intervista a una dipendente di un Comune dell’interland cagliaritano che ha voluto mantenere l’anonimato

 

di Anna Luisa Salis

 

Italia, 9 marzo 2020. Se volessimo raccontare come il Covid-19 abbia cambiato le nostre vite, dovremmo partire da questa data. Da quel giorno l’Italia conobbe il silenzio. Un silenzio che per nostra natura non ci appartiene. La lunga quarantena disposta per limitare la crescente epidemia di Coronavirus iniziò a condizionare fortemente il nostro Paese, da subito sul piano sanitario e in un secondo momento su quello economico. Vedendo il continuo aumento dei casi di contagio da Covid nelle regioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte) e prima di estendere il lockdown all’intero paese e procedere così alla chiusura per lo più totale delle attività economiche, il 1 marzo venne emanato dal Presidente del Consiglio dei Ministri un decreto che interveniva sulle modalità di accesso allo smartworking, successivo al DPCM del 26 febbraio con cui si raccomandava il massimo utilizzo del lavoro agile per tutte le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza.

E fu così che il settore privato e quello pubblico iniziarono una sperimentazione su scala nazionale della nuova modalità di lavoro. Si stima che circa il 15% dei lavoratori italiani abbia lavorato in smartworking (per il 79% dei quali è stata la prima volta), il 13% si sia recato fisicamente a lavoro, mentre il 45% sia rimasto a casa senza reddito. Ora, prendendo quest’ultima percentuale, penseremmo che riguardi sia le donne che gli uomini: falso. Se consideriamo il dato relativo alla percentuale di donne che non hanno percepito reddito durante l’epidemia da Covid, questo sale al 50%.

Questa cifra è l’ennesima conferma di un sistema basato sulla disuguaglianza di genere e parliamo di una potenziale forza lavoro che vanta una popolazione di circa 1,6 mln di donne in più rispetto agli uomini (dato ottobre 2019). Da una parte abbiamo una maggioranza “fisica”, se così vogliamo definirla, mentre dall’altra parte abbiamo una differenza in termini di occupazione che attesta che meno di 1 donna su 2 in Italia lavora. Con ciò possiamo capire come la disparità di genere sul lavoro era già evidente e come l’epidemia di Coronavirus abbia incrementato questa disuguaglianza.

Per avere una testimonianza diretta di come le donne abbiano dovuto reinventarsi “madri-donne in carriera”, ecco le parole di una lavoratrice facente parte del settore pubblico, esattamente un piccolo comune della Città Metropolitana di Cagliari. L’interlocutrice vuole mantenere comunque l’anonimato.

Il Municipio di Decimomannu

Per prima cosa, visto che di lavoro stiamo parlando, com’è stato per lei lavorare da casa? Anche per lei è stata la prima volta e non ha incontrato difficoltà con questa nuova realtà?

Sicuramente ci si è ritrovati in un mondo decisamente nuovo e personalmente è stata la prima volta dopo 30 anni di carriera in cui mi sono ritrovata a dover portare il lavoro a casa. Innanzitutto si è dovuto recuperare uno spazio all’interno della propria abitazione da dedicare al lavoro e questo non  è facile perché devi fare i conti con una porzione di casa dedicata alla vita lavorativa, circostanza a cui non eravamo abituati prima di tutto ciò.

Crede che per il settore pubblico sia fattibile una concezione di lavoro pressoché totale a distanza?

Decisamente sì, ci sono alcuni servizi che si prestano meglio di altri per cui non vi sono impedimenti per il datore di lavoro a concedere lo smartworking ai lavoratori. Ovviamente bisogna avere gli strumenti per poter procedere con questa modalità di lavoro a distanza. Posso dire che, per quanto mi riguarda, svolgo quest’attività alternando il telelavoro e la presenza effettiva in ufficio.

Ha incontrato difficoltà nel gestire famiglia e lavoro nello stesso luogo?

Indubbiamente esistono delle difficoltà, in quanto come lavoratrice ti ritrovi in contemporanea a dover gestire situazioni familiari e lavorative. Le pause di lavoro ne sono un esempio, perché una donna si ritrova ad utilizzarla non per riposarsi mentalmente bensì per portare avanti esigenze all’interno della propria famiglia. Personalmente mi ritengo fortunata in quanto con i miei figli e con mio marito facciamo un “bel lavoro di squadra”, dove ognuno ha dei ruoli e collabora alla vita familiare.

Se non fosse stato per questa pandemia, avrebbe mai accettato di lavorare da casa?

Onestamente no. Ti ritrovi isolata, non hai più le condivisioni e i rapporti sociali che avevi prima con colleghi e con gli utenti e poi mentalmente non stacchi mai da quelli che sono i tuoi impegni.

Prima sono stati riportati dei dati riguardo la forte disparità di genere in ambito lavorativo; lei, in quanto donna, si è mai sentita in una situazione di svantaggio rispetto ad altre persone?

Sin dall’inizio della mia carriera mi sono scontrata con una mentalità conservatrice e maschilista perché ho scelto – per passione – un lavoro prettamente maschile e dopo tanti anni la situazione non è cambiata per niente. Ancora oggi, non si concepisce che una lavoratrice donna possa ricoprire determinati ruoli e nonostante le varie tutele sindacali è sempre difficile trovare quell’equilibro relativo alle pari opportunità. Lo dimostra il fatto che per una convocazione di lavoro dissi di essere in attesa (per correttezza verso il datore di lavoro) e per questo non fui mai chiamata. Questa vicenda non fece vacillare il desiderio di poter diventare quella lavoratrice che sognavo di essere da ragazza e oggi posso dire con orgoglio di aver vinto quel muro di ostilità e diffidenza verso noi donne e madri lavoratrici.

Per concludere, la vedremo in ufficio oppure attraverso la finestra di casa?

Eh (ride), farò 50 e 50. Auspico che i datori di lavoro diano la possibilità, a quei lavoratori che ne facciano richiesta, di poter svolgere lo smartworking in totale serenità, organizzazione e maggiore regolamentazione.

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